Apocalisse, un concetto, una premonizione, un'idea. I media, la letteratura, il cinema, i videogiochi, in qualsiasi campo l'apocalisse è sempre più presente in questi ultimi anni, diventando quasi un genere. Qui si possono scambiare idee, condividere opinioni per fare in modo che l'apocalisse resti soltanto un modo di raccontare. Sullo sfondo dei problemi che attanagliano la vita di tutti i giorni, una raccolta di storie di genere post-apocalittico: le Cronache.

giovedì 9 maggio 2013

Città fantasma: Skrunda-1





Nel pieno della guerra fredda, l’Unione Sovietica fece costruire decine di città inesistenti per il resto del mondo. Erano città militari, che ospitavano centrali nucleari o stazioni radar, città fantasma ancor prima di essere abbandonate. Queste città non avevano un nome, ma usavano quello del centro abitato più vicino affiancandogli un numero, nel nostro caso: Skrunda-1.
Si trova in Lettonia, A suo tempo ospitò circa 5.000 abitanti, perlopiù militari, e una grande stazione radar chiamata Hen House, in grado di monitorare lo spazio e i cieli degli Stati Uniti per prevenire eventuali attacchi missilistici.



Con lo smembramento dell’Unione Sovietica, la base radar di Skrunda-1 è stata utilizzata come strumento di negoziato tra Washington e Mosca, mentre i suoi abitanti lentamente la abbandonavano al suo destino. Nel giro di pochi anni la stazione radar venne smantellata, a causa della costruzione della nuova stazione radar di Daryal, ancora più efficiente, e nel 1998 l’ultimo abitante di Skrunda-1 lasciò circa 70 edifici a morire nel silenzio.
Così quella che era nata come città nascosta dalle mappe sovietiche, divenne a tutti gli effetti una città fantasma.



Per 12 anni Skrunda-1 è rimasta nel silenzio, finché nel 2010 il governo della Lettonia non decise di mettere la città all’asta. Un imprenditore russo la acquistò per 3 milioni di dollari, ma non si sa molto di lui, tantomeno dei programmi riservati per Skrunda-1. E quegli edifici, nel pieno della fatiscenza, restano in attesa, nella speranza di mostrarsi al mondo.




mercoledì 13 febbraio 2013

Città fantasma: Varosha




La quarta tappa del viaggio attraverso le maggiori città fantasma si sofferma sulle coste di Cipro, in una frazione della città di Famagosta. Siamo a Varosha, meta del turismo di pochi, degli hotel di lusso e dalle spiagge affollate di personaggi famosi. Ma Varosha sorgeva su di un’isola contesa da secoli da Grecia e Turchia, furono questi conflitti a decretare la fine della città.




Nel 1974 venne effettuato un colpo di stato militare greco ai danni del palazzo presidenziale, che cedette ai combattimenti. Il tentativo era annettere la totalità dell’isola di Cipro alla Grecia. Pochi giorni dopo la Turchia rispose militarmente, spingendo il proprio esercito alla conquista dell’isola. L’invasione portò all’occupazione di un terzo dell’isola, oltre che all’evacuazione di centinaia di migliaia di residenti. Nelle zone evacuate, c’era proprio Varosha, isolata dal mondo con una rete di filo spinato, preda delle barbarie dell’esercito turco, che la depredò in seguito all’invasione.




La città è rimasta da allora in stato di abbandono, i recinti delimitano ancora i confini della zona turco-cipriota. Tuttavia, nonostante le lesioni del tempo e degli agenti atmosferici, non muore la speranza di recuperare quell’angolo di Famagosta tanto amato dal turismo. Molti hanno lanciato un appello alla Turchia, con il desiderio comune di riportare Varosha allo splendore di un tempo. Per il momento, però, gli unici abitanti di questo paradiso spettrale sono le tartarughe marine, tornate a nidificare sulla spiagge dopo l’abbandono di quest’ultime.




Il giornalista americano Alan Weisman parla di Varosha nel suo libro “Il mondo senza di noi”, in cui analizza il futuro del pianeta dopo la scomparsa dell’uomo. Weisman ammette che basterebbero 25 anni di abbandono a rendere un edificio ormai inutilizzabile, sostenendo che la natura si riprende in maniera permanente ciò che l’uomo le ha tolto. Questa le parole di Weisman in seguito ad una visita di Varosha nel 1976, appena due anni dopo l’evacuazione:




“Il registro dell'albergo era ancora aperto all'agosto del 1974, le chiavi delle stanze posate sul bancone, la sabbia era entrata formando piccole dune nell'atrio, i fiori erano seccati nei vasi, veri e propri alberi stavano già invadendo la sede stradale. Piante grasse rampicanti serpeggiavano dai giardini degli alberghi, le vetrine dei negozi esponevano ancora creme solari e souvenir, un concessionario Toyota offriva ancora una vecchia Corolla, le facciate degli alberghi crivellate di proiettili, dieci piani di porte a vetro scorrevoli ormai distrutte...”




giovedì 17 gennaio 2013

Wall-e: quando l'uomo smette di crederci...


Molto spesso i film d’animazione vengono sottovalutati delle loro potenzialità, perché associati ad un pubblico infantile a cui basta un intrattenimento colorato e simpatico per passare la giornata. Questo è un errore comune, ma se si parla di Wall-e, il capolavoro della Pixar, il discorso è tutt’altro.
Non basta una recensione per spiegare quanto di meraviglioso c’è in questo film, non basta un resoconto dettagliato sul come abbiano curato le immagini e cercato ossessivamente i suoni per creare un mondo che ancora non c’è.
Bisogna fare attenzione innanzitutto a ciò che Wall-e vuole mostrarci, cioè una realistica e probabile visione del nostro futuro.
Il mondo è sommerso dai rifiuti, così tanto che la terra non è più vivibile.
Così l’uomo fugge su delle immense astronavi da crociera, mentre sulla terra dei piccoli e simpatici robot puliscono senza sosta.
Ovviamente, come ogni piano estremo, le cose possono andare storte. Così rimane il piccolo Wall-e, ormai unico nel suo genere, che continua imperterrito e testardo (ma quanta poesia) nel suo lavoro.
Le prime sequenze possono forse essere divertenti per i bimbi, in cui Wall-e esplora una pattumiera a grandezza mondiale e si stupisce degli oggetti che trova. Raccoglie una scatolina contenente un anello con tanto di brillante, butta quest’ultimo e tiene la scatolina. Quanta ilarità, ma quale messaggio arriva? Che cosa ritiene interessante il piccolo Wall-e?
Dovrebbe essere soltanto un robot che pulisce il mondo, invece è alla continua ricerca di poesia, di impreziosire quel mondo alla deriva in cui tutto sembra morto. Immaginate la sorpresa del piccolo robot quando si ritrova di fronte alla verde maestosità di una piccola piantina, di cui tuttavia non comprende l’importanza. Come lui, nemmeno l’uomo.


Questo, rappresentato nel modo più realistico concesso, sdraiato su una poltrona mobile con uno schermo davanti al viso. Come per celare agli occhi la vista della verità, alterando le proprie relazioni sociali, indottrinandolo alla moda del momento e al finto fabbisogno della propria esistenza. Una situazione, quella di questo film d’animazione per bambini, che può essere paragonata al 1984 di George Orwell, in cui questa volta il Grande Fratello è la cecità che viene elargita agli uomini.
Perché il piano di pulizia della terra è andato male, e i decenni sono passati veloci senza che nessuno se ne accorgesse.


Wall-e, per essere solo un film d’animazione per bambini, parla più chiaro della maggior parte dei film che escono nelle sale. E se credete che un bambino non possa recepire il messaggio, non possa apprezzare il comandante dell’astronave che vuole coltivare pizza o un robot che abbandona la sua direttiva prioritaria per darsi al romanticismo, vi sbagliate di grosso. Perché un bambino rimarrà affascinato come Wall-e dal verde che lo circonda, e forse nelle sue azioni future la sua mente farà un collegamento inconscio, perché ciò che mostra il capolavoro Pixar non è fantasia, non è illusione. Wall-e è quella parte ben celata dentro di noi, quella che sa riconoscere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Quella che, nonostante intorno a noi sia pieno di spazzatura (e non si parla solo di rifiuti), riesce ancora ad apprezzare le piccole scoperte. Come un bambino, con il suo zainetto, che raccoglie quanto di meraviglioso c’è in questo mondo.


mercoledì 16 gennaio 2013

Moon: dal lato oscuro della luna...


L’uomo ha sempre guardato ben oltre di quanto l’occhio potesse permettergli, fin dagli albori della fantascienza la meta più acclamata è sempre stata la luna.
Lo dimostra una delle pellicole più famose nella storia del cinema, se non la più.
Era il 1902 quando George Melies mostrò al mondo il suo Viaggio sulla Luna, dove quest’ultima viene rappresentata in modo visionario e quanto mai lontano dalla realtà effettiva.
Da allora il genere della fantascienza ci ha regalato visioni e immagini dal futuro, dando sfogo alla creatività di artisti concettuali che hanno aiutato sicuramente gli inventori di oggi.
Molto è stato detto sulla luna, così tanto che l’uomo è andato oltre, l’uomo ha scoperto altre galassie ed esplorato i buchi neri.
Per questo una recente pellicola ha catturato la mia attenzione, perché a distanza di quasi cento anni dal film di Melies si è tornato ancora a parlare della luna.
Il titolo del film in questione è Moon, diretto da Duncan Jones e presentato al Sundance Film Festival nel gennaio del 2009.


La visione di Moon non è molto lontana da una previsione del mondo futuro, alla costante ricerca di fonti di energia alternative.
La soluzione nell’universo di Moon proviene dall’estrazione dell’Elio-3 dal suolo lunare, in grado di soddisfare il fabbisogno energetico del 70% del pianeta.
A permettere ciò è un solo uomo, Sam Bell, interpretato magistralmente da Sam Rockwell. L’unico uomo sulla luna è in compagnia di un robot di nome GERTY, che ricorda un po’ l’odissea di Kubrick e a cui Kevin Spacey da la voce. Il compito di Sam Bell è quello di inviare l’Elio-3 alla terra dalla base situata nel lato oscuro della luna, il suo turno di tre anni è quasi terminato e non vede l’ora di tornare a casa per riabbracciare sua moglie. Un inizio classico per quei film che hanno voglia di stravolgere, di mettere in discussione ogni elemento, ed è esattamente ciò che fa Moon.
Sam Bell ha un incidente durante una normale procedura di routine e si risveglia in infermeria, non è più lo stesso Sam Bell di prima.
Così Moon si mette in discussione, e tutto ciò che sembrava certezza inizia a vacillare, come la fiducia verso la premurosa macchina di nome GERTY che riesce a comunicare solo attraverso simpatici (e ambigui) smiley.


Le comunicazioni in diretta con la terra sono impossibili a causa di un guasto ad un satellite, e Sam Bell smette di credere a quelle che inizialmente sembravano verità, il suo desiderio di risposte è così ossessivo che molto presto si ritrova a confrontarsi con se stesso, forse più materialmente di quanto le parole possano spiegare. I ritmi sono scanditi dalla musica di Clint Mansell, e nonostante il cast consista nel solo Sam Rockwell, Moon si dimostra essere un film dal basso budget che non cade nelle classiche pause da introspezione del personaggio, qualcosa che uno spettatore del sabato di pioggia assolutamente non apprezzerebbe. Nonostante si noti la differenza tra la pellicola di Duncan Jones e le grandi produzioni dei blockbuster della stagione, Moon è un film che fa ragionare. Non vuole solo giocare con le illusioni della mente umana, ma mostra una probabile proiezione di un futuro non troppo lontano, in cui l’uomo cerca la soluzione dei propri problemi guardando in cielo, senza in realtà cambiare il proprio approccio allo sfruttamento delle risorse.
La fotocopia fantascientifica di ciò che in realtà già succede in ogni angolo del mondo, dove ogni uomo sfruttato è solo, tagliato fuori dalla sua vita, con i propri diritti asportati a favore del guadagno di qualcuno. Moon è proprio nella nostra testa e Sam Bell, come chiunque, ha smesso di crederci.




giovedì 10 gennaio 2013

Città fantasma: Bodie




William Bodey cercava l’oro, e nella contea di Mono, in California, ce n’era abbastanza.
Non sapeva, però, di aver trovato uno dei giacimenti più importanti.
William Bodey non visse abbastanza per saperlo, fu sorpreso da una bufera di neve nel 1859, solo diciassette anni dopo fu scoperto il giacimento che trasformò il piccolo centro minerario fondato da Bodey in una vera e propria città da Far West.
La popolazione arrivò a sfiorare quasi i 10.000 abitanti, per un numero di circa 2.000 fabbricati.
Questi, costruiti interamente in legno, includevano banche, sindacati, giornali, una prigione, più di sessanta saloon, una chiesa e addirittura un tempio taoista.
A Bodie, infatti, figurava anche un quartiere cinese, con centinaia di residenti.




Non solo l’oro attirava nuovi abitanti, molto presto Bodie divenne famosa per la criminalità che veniva consumata tra le strade. Le fonti storiche riportano continui omicidi, sparatorie, bordelli e locali in cui i minatori spendevano tutto il loro guadagno, spesso con conclusioni fatali.
Era uso quotidiano chiedere al mattino se ci fosse un uomo per colazione, ovvero se qualcuno fosse stato ucciso quella notte.



Una storia, forse soltanto una leggenda, racconta di una bambina che si stava trasferendo con la propria famiglia da San Francisco a Bodie. A seconda di chi la racconta, questa bambina scrisse sul suo diario “Bene, per Dio, sto andando a Bodie”, oppure “Addio, Dio, sto andando a Bodie.”
Tra le leggende figura anche quella di Rosa May, una prostituta del distretto a luci rosse. Quest’ultima avrebbe aiutato la popolazione in un momento di epidemia nella città, salvando molte vite. Si dice, però, che fu sepolta fuori dal recinto del cimitero.




Il primo declino venne registrato dopo il 1980, quando altri importanti giacimenti furono rilevati in Arizona, Montana o Utah. La popolazione di Bodie si ridusse, ma non per questo la città fu abbandonata. Al contrario, furono costruite una chiesa metodista e una cattolica proprio ad indicare la trasformazione di un centro minerario in un vero e proprio centro abitato.




Le attività minerarie procedevano senza sosta, e Bodie vide innovazioni tecnologiche per l’estrazione dell’oro e anche una piccola ferrovia intitolata a suo nome.
Tuttavia, nel 1910 fu registrata la presenza di 698 persone, equivalenti alle famiglie che avevano deciso di restare a Bodie piuttosto che cercare giacimenti migliori altrove. Un numero troppo basso per rappresentare la città che era.



Furono tentate manovre di investimento, ma il censimento della popolazione mostrava cali bruschi che, nel 1940, toccarono appena un centinaio di persone.
L’ultima miniera venne chiusa nel 1942, quando fu ordinato di chiudere tutte le miniere d’oro non essenziali agli Stati Uniti.
L’etichetta di “Città Fantasma”, però, le fu consegnata molti anni prima. Un grande incendio devastò gran parte del distretto commerciale, e il numero di residenti era così scarso che un giornalista del San Francisco Chronicle decise di affibbiarle la nomina di “fantasma”.




Dopo che Bodie venne abbandonata, si presentarono gravi casi di vandalismo, che obbligarono l’assunzione di custodi per tutelarne le strutture. Questi custodi, furono gli ultimi abitanti di Bodie, e nel 1943 erano soltanto tre.
Nel 1962 Bodie divenne National Historic Landmark, ovvero un territorio non protetto come un monumento, ma che viene considerato di interesse storico nazionale.
Infatti Bodie conserva le architetture e l’arredamento dell’epoca, proprio come una città del Far West.




A causa della posizione dell’insediamento, sopra i 2.500 m di altitudine, e i pochi ostacoli naturali che la proteggono dagli agenti atmosferici, Bodie è afflitta da estati calde e inverni rigidi.
La mancanza di alberi nella zona, infatti, viene attribuita al fatto che anche le nottate estive fossero gelide, e molta legna fu utilizzata per scaldare i numerosi abitanti.




Questo clima rigido ed estremo, permette le visite alla città soltanto nei mesi festivi. Nonostante non sia difficile da raggiungere, a poche miglia da una strada statale, la neve e il ghiaccio ne rendono impossibile l’accesso.





Nonostante solo una piccola parte della Bodie fiorente di una volta sia sopravvissuta, quasi 200.000 persone ogni anno si avventurano per visitarla.




Bodie fece da sfondo per un servizio fotografico della band U2, che utilizzarono le foto per il loro album The Joshua Tree del 1987.