Apocalisse, un concetto, una premonizione, un'idea. I media, la letteratura, il cinema, i videogiochi, in qualsiasi campo l'apocalisse è sempre più presente in questi ultimi anni, diventando quasi un genere. Qui si possono scambiare idee, condividere opinioni per fare in modo che l'apocalisse resti soltanto un modo di raccontare. Sullo sfondo dei problemi che attanagliano la vita di tutti i giorni, una raccolta di storie di genere post-apocalittico: le Cronache.

mercoledì 28 novembre 2012

Città fantasma: Gunkanjima




Chi ha già visto Skyfall, il 23° capitolo della saga di James Bond, sarà forse rimasto affascinato da quell'isola abbandonata per via di un inganno creato dal villain del film, per il 50% la notizia è vera. Nessuna epidemia ha colpito la piccola isola di Gunkanjima, situata nella prefettura di Nagasaki, per quanto riguarda lo stato di abbandono e di degrado, nessun trucco cinematografico ha alterato l'aspetto di quella che viene definita "nave da guerra". Perché l'aspetto di questa piccola isola è proprio quello di una nave da guerra, grigia e decadente, con un muro di cemento circostante dedito a prevenire inondazioni.
L'isola era un importante polo minerario, grazie alla miniera di carbone contenuta in essa, tra il 1887 e il 1974. Nel 1959 è stata oggetto di una delle più alte densità abitative mai registrate, ben 3450 abitanti per chilometro quadrato.
Sull'isola era presente una scuola elementare e una superiore, una palestra, un cinema, un bar, un ristorante, diversi negozi e un ospedale. Anche un tempio buddista e uno shintoista.
La vita era tutt'altro che ospitale, gli appartamenti consistevano in celle anguste e soffocanti, l'isola non produceva altro che carbone, e i beni per la sopravvivenza venivano trasportati da navi cargo.
Nel periodo estivo, a causa dei tifoni, l'isola era isolata dal resto del mondo, nell'attesa di ricevere quei rifornimenti che avrebbero salvato la vita di non poche persone.


Nel 1941 venne estratta una quantità di carbone pari a 410.000 tonnellate, fu il periodo di massima attività della miniera. Per raggiungere questo traguardo, però, parecchi operai persero la vita.
Motivo per il quale vennero utilizzati prigionieri cinesi e i coreani, mentre i giapponesi combattevano la guerra al fronte. Delle morti registrate su Gunkanjima, inaspettatamente, buona parte avvennero per fame e scarse condizioni igieniche. Nel 1983 venne intervistato un coreano, Suh Jung-woo, che fu costretto a lavorare sull'isola:
"Nonostante il lavoro massacrante, i nostri pasti consistevano semplicemente per l'80% di fagioli e 20% di riso bollito con qualche sardina. Quasi ogni giorno soffrivo di diarrea, e la mia forza gradualmente se ne andò. Ho provato a riposarmi, ma le guardie arrivavano e mi costringevano a lavorare, non so quante volte ho pensato di buttarmi a mare ed annegare.
Quaranta o cinquanta dei miei compagni coreani si sono suicidati o sono annegati tentando di raggiungere Takahama. Io non so nuotare, ma fui fortunato. Dopo cinque mesi fui trasferito alla fabbrica della Mitsubishi di Saiwai-machi, a Nagasaki, e potei lasciare l'isola. Se fossi rimasto, non sarei vivo ora. C'erano già 200 coreani sull'isola quando arrivai, per cui in totale siamo stati 500 o 600. Eravamo tutti pigiati assieme in due edifici, uno con 5 camere per piano e l'altro con sei. Mi piange il cuore a pensare agli altri coreani. Oggi le persone chiamano l'isola Battleship Island, ma per noi era Prison Island, senza possibilità di fuga."



Dopo la seconda metà del '900, quando il petrolio sostituì il carbone come fonte di energia, l'isola venne gradualmente abbandonata, fino alla situazione in cui è ora, ferma al 1974.
Gli edifici sono prossimi al crollo, ed è proprio questo aspetto decadente e, come suggerisce qualche turista, "post-apocalittico" ad attirare i curiosi e i turisti.
L'isola, però, rimase invisibile agli occhi del mondo fino al 2005, quando a un gruppo di giornalisti fu concesso di visitarla per la prima volta. Da questa data al 2009, comunque, l'isola era considerata off-limits, con una punizione di carcere per un mese ai trasgressori di questo divieto. Solo ai pescatori era permesso di avvicinarsi e di sbarcare, a patto che rimanessero sul muro perimetrale.
Tuttavia, oggi è possibile visitarla tranquillamente, anche se le dure condizioni meteo impongono un periodo di apertura di soli 160 giorni all'anno.






mercoledì 21 novembre 2012

Detox: ecco ciò che indossiamo




La nuova preda di Greenpeace è il marchio d’abbigliamento ZARA, in seguito a una campagna denominata Detox. Sotto indagine, però, le più grandi catene di moda del mondo.
Sotto al nome di ZARA, infatti, figurano anche Benetton, Jack & Jones, Diesel, Esprit, Gap, Armani, H&M, Levi, Victoria’s Secret, Mango, Marks & Spencer, Tommy Hilfiger e Calvin Klein.
Sono stati esaminati 141 capi di abbigliamento con la conseguente scoperta di sostanze pericolose contaminanti.
Alchilfenoli e ftalati, i primi sono altamente tossici (in quanto persistenti) per gli organismi acquatici, mentre in quelli animali provocano dermatiti ed allergie. I ftalati, invece, causano una femminilizzazione nei neonati maschi, disturbando la maturazione dei testicoli, oltre a provocare danni al fegato, ai reni e ai polmoni.
Ovviamente la notizia non è una novità, ma Greenpeace fa partire la solita raccolta firme, chiedendo a ZARA di azzerare l’utilizzo di queste sostanze entro il 2020, cosa che altri marchi come H&M e Mark & Spencer hanno già accettato. Greenpeace afferma di aver scelto ZARA in quanto è il marchio più grande, e che quindi ha la maggior concentrazione di queste sostanze.
Si impone, inoltre, di fornire al cliente i valori di tutte le sostanze rilasciate nelle acque dai loro impianti.
Quello che si vorrebbe evitare, e curare, è una situazione come quella della Cina, la più grande fornitrice di capi di abbigliamento, anche per grandi marchi occidentali.
Un terzo della popolazione cinese non ha accesso all’acqua potabile, in quanto quest’ultima è inquinata e l’industria tessile ne è una delle principali cause.
Qui sotto il link per la nuova campagna di Greenpeace:

Greenpeace Detox/Zara

lunedì 19 novembre 2012

Io non vi voto: sfida alla politica fossile



Le proteste di Greenpeace per un futuro energetico pulito continuano senza sosta, e questa volta direttamente contro il governo italiano. O meglio, contro i rappresentanti di popolo, i politici che sempre più si criticano tra di loro, offendendosi quasi fosse un gioco per bambini. Si pongono domande, si danno delle risposte non troppo convincenti e promettono. Ora Greenpeace li invita a rendere conto al popolo di una questione che dovrebbe essere equamente importante come tante altre: l'impiego di fonti rinnovabili per la produzione di energia. Chiudere quindi il capitolo del carbone e del petrolio che, afferma Greenpeace, causano 570 morti premature l'anno e ben oltre i 2,6 miliardi di danni (l'Enel è responsabile del 70% di questi dati).
Cosa c'entra la politica? Facile a dirsi, quando Enel realizza un nuovo impianto a carbone nel pieno del Parco del Delta del Po, con la firma del governo Berlusconi e quella di una giunta regionale della Lega Nord.
Oppure, all'altro lato della schema politico, ci sono le due centrali di Brindisi di cui la prima, a Brindisi Nord, risale agli anni '60 e non è di certo efficiente e pulita, mentre la seconda, Brindisi Sud, è stimata come l'impianto industriale più inquinante d'Italia.
L'ultimo chiodo va appuntato sul governo di tecnici, che acconsente alla creazione di una nuova centrale a carbone in Calabria.
Dal carbone si passa all'oro nero, quello liquido.
Infatti, nel Mar Mediterraneo, prosegue la ricerca alle ultime gocce di petrolio. Quanto ce n'è di questo petrolio? Secondo le stime del ministero dello sviluppo economico circa 10 milioni di tonnellate, l'equivalente di sette settimane di consumo nazionale. Sette settimane, con 15 miliardi di euro di investimenti.
Le stesse somme, investite nell'ambito delle fonti rinnovabili, potrebbe dare vita a circa 200.000 posti di lavoro, per un mercato che non è effimero quanto quello del petrolio.
Ora Greenpeace lancia una petizione online, chiunque può mettere il suo nome e mandare il suo reclamo ai nostri politici, qui il link:

Greenpeace: Io Non Vi Voto

martedì 13 novembre 2012

Qual'è il piano B?




Il magazine Popular Science pubblica un interessante articolo, esso analizza i possibili piano per fermare il surriscaldamento globale. Non stiamo parlando di soluzioni, ma di un’ultima spiaggia, qualcosa a cui aggrapparsi al tramonto della nostra esistenza.
Se aumenta la quantità di anidride carbonica nell’aria, qual è il mezzo più ovvio per ristabilire il giusto equilibrio con l’ossigeno? Piantare più alberi.
Nel 2009 la NASA annunciò che si sarebbero dovuti piantare alberi per tutta l’estensione del Sahara e dell’Australia. In questo modo, annualmente si sarebbero potute assorbire ben 12 miliardi di tonnellate di CO2, cioè un terzo delle emissioni totali registrate nel 2010.
Ovviamente, imboschire un deserto comporta le sue conseguenze, perché ciò altererebbe l’equilibrio dell’intero pianeta. Ad esempio, la formazione di cicloni nell’area atlantica è tenuta sottocontrollo dal clima caldo del Sahara. Inutile parlare inoltre dei costi che comporterebbe il piantare miliardi di alberi e la dovuta irrigazione.
Un’altra soluzione proposta è quella di fertilizzare gli oceani con del ferro. Si è scoperto infatti che il ferro stimola la produzione di fitoplancton. Questi organismi riescono a creare la metà dell’ossigeno prodotto dall’intera flora mondiale. Tuttavia, qualsiasi sia il grado di fertilizzazione delle acque, non si riuscirebbe comunque ad abbassare l’anidride carbonica ad un livello significativo.
La terza soluzione, proposta nel 2008 dallo scienziato Rolf Schuttenhelm, è quella di costruire un’immensa diga lungo il Mare di Bering. Così facendo, si impedirebbe alle acque dell’Oceano Pacifico di fluire verso il polo nord, mantenendo bassa la temperatura delle acque e si ricongelerebbe la calotta artica, abbassando così la temperatura della terra.
L’ultima soluzione, proposta da un team di ricercatori britannici, si chiama “Pinatubo Option”.
Prendono ispirazione direttamente dal vulcano Pinatubo che, nel 1991, diffuse nell’atmosfera 20 milioni di tonnellate di biossido di zolfo, abbassando la temperatura media della terra di circa mezzo grado nell’anno successivo.
L’idea di Pinatubo Option, è quella di innalzare enormi palloni aerostatici pieni di particelle di solfato, in modo da abbassare la temperatura. Il problema, è che il processo andrebbe ripetuto negli anni, in quanto il suo effetto è di breve durata. Una volta avviato, inoltre, non potrebbe essere più interrotto, perché le temperature si innalzerebbero velocemente, causando anche lo scioglimento del permafrost. Quest’ultimo è uno strato di terreno perennemente ghiacciato, una specie di copertura impermeabile dei terreni glaciali, come l’artico, l’Alaska o la Siberia. Sotto di esso è presente una grandissima quantità di gas metano, trenta volte più nocivo dell’anidride carbonica.
Non è difficile immaginare quindi il grave rischio a cui si andrebbe incontro, motivo per cui si può ammettere con franchezza che non ci sono ultimatum che la terra può concederci, non c’è un’estrema soluzione al surriscaldamento globale.
La cosa più sensata e ovvia che si potrebbe fare, è quello di assumersi qualche responsabilità e anzitutto cominciare a limitare dove possibile, perché imporre un limite è l’inizio di un cambiamento.

Tree Concert: la natura diventa musica



Una quercia al Montbijoupark di Berlino, una struttura in polimeri ai suoi piedi ne illumina le fronde grazie a delle lampade nascoste. Cosa c'è di strano?
Ogni volta che un frutto, una castagna o un riccio, cade dall'albero, si scatena una sinfonia ispirata ai suoni della natura. Le lampade, inoltre, cambiano colore, e sembrano mostrare il passaggio delle stagioni.
L'installazione temporanea si chiama Tree Concert, e nasce dalla collaborazione tra lo studio Proximity BBDO e l'organizzazione ambientalista Bund. Il messaggio, spiegano, è quello di sensibilizzare alla diminuzione crescente degli alberi nella capitale tedesca. Per sostenere la causa di Tree Concert, è stata aperta anche una raccolta fondi.

Ecco il link di youtube per visualizzare, e ascoltare, l'originale concerto:

Tree Concert - Bund

lunedì 12 novembre 2012

Greenpeace vs Enel: il corto



Sono mesi che la battaglia tra Greenpeace e Enel va avanti, ultimamente finendo anche in tribunale. Tuttavia, Greenpeace non si lascia scoraggiare ed ecco che presenta un cortometraggio dal messaggio semplice e immediato. Si intitola "Uno al Giorno", rifacendosi all'affermazione che il carbone di Enel, in Italia, causa una morte prematura al giorno. Il corto è interpretato da Alessandro Haber, Paolo Briguglia, Pino Quartullo e Sandra Ceccarelli, la regia è di Mimmo Calopresti e le musiche sono concesse dai Subsonica.
Ricordiamo che quello che chiede Greenpeace, da parte di Enel, è di dimezzare la produzione da carbone entro il 2020, e di sostituire completamente quest'ultimo con fonti rinnovabili entro il 2030.
Come reagisce Enel a questa offensiva? Minacce legali e il tentativo di censurare queste immagini.

Ecco il link per youtube:
"Uno al Giorno"

domenica 11 novembre 2012

Idrogeno, una realtà?



Il mercato dell'automobile si muove, e lo fa velocemente. Questa volta punta tutto sulle auto elettriche, fossilizzandosi forse troppo sulla velocità piuttosto che sull'autonomia. Tuttavia, il motore elettrico non è l'unica sana alternativa contro le emissioni di CO2. Si parla tanto anche di auto ad idrogeno, ma il discorso è più fantascienza che altro. L'Honda, invece, propone una soluzione molto concreta. Si chiama FCX Clarity, e a vederla sembrerebbe uscita da un romanzo di Isaac Asimov, invece è sul mercato statunitense dal 2008.
La FCX contiene delle fuel cell in cui si scatena una reazione chimica tra ossigeno e idrogeno, in questo modo produce energia in grado di muovere un motore elettrico di 140 cavalli. L'auto può così raggiungere i 430 km di autonomia, per una velocità massima di 160 km/h.
Le emissioni? Vapore acqueo. Ma non finisce qui.
L'auto riesce a produrre energia nettamente superiore al fabbisogno del motore, così la FCX è stata dotata di batterie agli ioni di litio per immagazzinarne gli eccessi. Una volta tornati a casa, basterà usufruire della presa da 10 kW e si può avere la propria sorgente di corrente elettrica, il tutto con zero emissioni.
Oltre a questi dati, se si considera che per fare un pieno di idrogeno l'auto impieghi solo 4 minuti, viene da chiedersi per quale motivo le auto a idrogeno non abbiano preso il sopravvento. In effetti, c'è qualche problematica.
La FCX non può essere semplicemente acquistata in un concessionario Honda, è disponibile solo in leasing e solo nello stato della california. Il prezzo? 600 dollari al mese, con un impegno di tre anni. Oltre a questo, va considerata la scarsa presenza di stazioni di ricarica d'idrogeno.
Se è davvero così conveniente, perché tanti disagi? Forse si cerca di mietere l'entusiasmo per un'invenzione come la FCX, scomoda e fastidiosa per chi trae vantaggio da tutt'altro mercato.


Parliamo di numeri...

Un nuovo studio dell'Università di Sussex riporta dati davvero interessanti sui costi che i Governi dovrebbero sostenere per salvaguardare la biodiversità e le specie in via di estinzione.
Sono stati valutati investimenti di almeno 2 miliardi e mezzo di euro per migliorare le condizioni degli animali, mentre ben 42 miliardi di euro annuali andrebbero per la gestione e conservazione degli eco-sistemi di rilevanza globale. Quelle che sembrano cifre astronomiche, sono in realtà inferiori del 20% rispetto alla sola spesa annuale sostenuta dai consumatori per l'acquisto di bevande analcoliche.



domenica 4 novembre 2012

Forest Corridor: il traffico diventa verde



Il progetto Forest Corridor nasce come soluzione al traffico intensivo in aree largamente popolate delle metropoli asiatiche. Frutto dello studio londinese BREAD, Forest Corridor è la trasformazione di una strada sopraelevata in un tunnel, mediante dei pannelli sorretti da dei pilastri. Quest'ultimi, sono progettati per essere costruiti con materiali riciclati quali bottiglie di plastica. Invece di alimentare la struttura con il fotovoltaico, invece, è stato adottato un ingegnoso sistema a pendolo (gravity assisted power), produce elettricità grazie al vento e alle turbolenze causate dal traffico, questo permette di rimanere indipendenti dalle condizioni meteorologiche. Ma qual'è la vera novità riportata dal progetto? Presto detto.
I pannelli che circondano la strada saranno percorsi da piante rampicanti, coltivate in alloggiamenti al di sotto del livello della strada, l'irrigazione è concessa da un sistema di filtraggio contenuto nei pannelli stessi.


 

Questa soluzione promette di concedere agli automobilisti un piacevole viaggio, ma anche chi osserva da fuori la struttura ne trae beneficio. Le piante rampicanti nascondono il cemento grigio e cupo della strada, i suoni vengono attutiti dai pannelli e le luci dei fanali vengono mitigate dalla vegetazione.

Alberi artificiali: una soluzione?




Quando gli alberi non riescono salvarci dal problema dell'effetto serra, la Global Research Technologies sviluppa una tecnologia che dovrebbe risolvere la questione.
Si tratta di un progetto di albero artificiale, consistente in un pannello di varie dimensioni, in grado di depurare in un giorno la stessa quantità di CO2 che un albero assorbe in un anno.
Questi pannelli contengono idrossido di sodio che, a contatto con l'anidride carbonica, sviluppa una reazione chimica che produce carbonato di sodio, azzerando il livello di CO2.
Eliminare gli scarti, però, si trasforma in un punto interrogativo costoso e controproducente.
L'idea proposta è quella di scavare grotte a grandi profondità, aggiungendo questo dato al costo elevato della tecnologia e alle grandi quantità di pannelli necessari per stabilizzare le emissioni di CO2, non è difficile immaginare con quanta diffidenza l'idea venga considerata. Infatti, per assorbire le emissioni di una centrale a carbone, occorrerebbero cinque impianti di un chilometro quadrato l'uno.
Tuttavia le foreste artificiali, in confronto ad altri progetti di geo-ingegneria (tra cui quella di lanciare in orbita dei pannelli riflettenti per respingere i raggi del sole), si sono dimostrate più "plausibili" ed efficaci.
L'emergenza delle emissioni è considerato uno dei problemi prioritari della nostra terra, oggi si possono contare ben 8,7 miliardi di tonnellate di CO2 che, secondo le stime, diventeranno 12  nel 2030.
L'intento delle foreste artificiali non è quello di risolvere il problema, ma piuttosto quello di darci più tempo.



sabato 3 novembre 2012

Ecosia, un sistema che funziona?




Ecosia nasce nel 2009 con l'idea di realizzare un motore di ricerca "verde" ed ecologico. Fondato su una partnership con Bing, Yahoo e Wwf, Ecosia dichiara di cedere l'80% dei proventi per finanziare un progetto di protezione della foresta pluviale nel Juruena National Park in Amazzonia. Funziona così: ogni volta che un utente effettua una ricerca tramite Ecosia.org e clicca sui link sponsorizzati, vengono salvati mediamente due metri quadrati di foresta pluviale. Inoltre Ecosia dichiara di usare energia pulita per le proprie attività, a differenza dei concorrenti (in particolare Google). Questa dichiarazione può essere smentita dalle decine di milioni che Google ha stanziato per l'acquisto di server più "parsimoniosi" per quanto riguarda i consumi. Nonostante il numero uno delle ricerche in rete, Google, non si presenti come il motore di ricerca ecologico per eccellenza, il suo impegno non può essere messo in dubbio.
Altrettanto non si può dire proprio di Ecosia, che definisce i suoi server tra i "più verdi" che esistano. Questo crea qualche dubbio, considerato che i server con cui Ecosia effettua le ricerche appartengono a Bing e Yahoo. Proprio quest'ultimo promette di abbattere le emissioni di CO2 del 40% entro il 2014, costruendo un centro dati che venga alimentato al 90% con l'energia idro-elettrica delle cascate del Niagara.
Anche se il progetto di Ecosia sembra avere fini nobili, parecchi dubbi nascono sul come le foreste vengano salvate. Il collegamento tra i link sponsorizzati e i due metri quadrati di foresta sono vaghi e illogici, sicuramente un po' di chiarimento da parte di Ecosia porterebbe più fiducia nei loro confronti.
Tuttavia, sul sito si dichiara di aver raggiunto la cifra tutt'altro che modesta di 125.000 euro in un anno di attività, sommando lentamente i pochi centesimi che i link sponsorizzati concedono al motore di ricerca.
Per smentire ogni critica o giudizio mal riposto, Ecosia pubblica le ricevute dei suoi pagamenti e delle sue attività ogni mese. Lo stesso sito del Wwf annuncia quanto sia utile il contributo a basse emissioni di Ecosia per salvare l'ambiente in pericolo della foresta pluviale, ma tutto ciò che se ne trae sono solo una manciata di numeri quasi sparati alla rinfusa (come l'ormai celebre confronto con i campi da calcio).
Alla conclusione dei fatti, l'idea sembrerebbe davvero un piccolo passo alla portata di tutti, anche se il mondo non verrà certo salvato da un click, ma certamente una spiegazione più dettagliata da parte di Ecosia, che non sia la descrizione della foresta amazzonica e del suo valore per la terra, sarebbe più gradita.