Apocalisse, un concetto, una premonizione, un'idea. I media, la letteratura, il cinema, i videogiochi, in qualsiasi campo l'apocalisse è sempre più presente in questi ultimi anni, diventando quasi un genere. Qui si possono scambiare idee, condividere opinioni per fare in modo che l'apocalisse resti soltanto un modo di raccontare. Sullo sfondo dei problemi che attanagliano la vita di tutti i giorni, una raccolta di storie di genere post-apocalittico: le Cronache.

giovedì 9 maggio 2013

Città fantasma: Skrunda-1





Nel pieno della guerra fredda, l’Unione Sovietica fece costruire decine di città inesistenti per il resto del mondo. Erano città militari, che ospitavano centrali nucleari o stazioni radar, città fantasma ancor prima di essere abbandonate. Queste città non avevano un nome, ma usavano quello del centro abitato più vicino affiancandogli un numero, nel nostro caso: Skrunda-1.
Si trova in Lettonia, A suo tempo ospitò circa 5.000 abitanti, perlopiù militari, e una grande stazione radar chiamata Hen House, in grado di monitorare lo spazio e i cieli degli Stati Uniti per prevenire eventuali attacchi missilistici.



Con lo smembramento dell’Unione Sovietica, la base radar di Skrunda-1 è stata utilizzata come strumento di negoziato tra Washington e Mosca, mentre i suoi abitanti lentamente la abbandonavano al suo destino. Nel giro di pochi anni la stazione radar venne smantellata, a causa della costruzione della nuova stazione radar di Daryal, ancora più efficiente, e nel 1998 l’ultimo abitante di Skrunda-1 lasciò circa 70 edifici a morire nel silenzio.
Così quella che era nata come città nascosta dalle mappe sovietiche, divenne a tutti gli effetti una città fantasma.



Per 12 anni Skrunda-1 è rimasta nel silenzio, finché nel 2010 il governo della Lettonia non decise di mettere la città all’asta. Un imprenditore russo la acquistò per 3 milioni di dollari, ma non si sa molto di lui, tantomeno dei programmi riservati per Skrunda-1. E quegli edifici, nel pieno della fatiscenza, restano in attesa, nella speranza di mostrarsi al mondo.




mercoledì 13 febbraio 2013

Città fantasma: Varosha




La quarta tappa del viaggio attraverso le maggiori città fantasma si sofferma sulle coste di Cipro, in una frazione della città di Famagosta. Siamo a Varosha, meta del turismo di pochi, degli hotel di lusso e dalle spiagge affollate di personaggi famosi. Ma Varosha sorgeva su di un’isola contesa da secoli da Grecia e Turchia, furono questi conflitti a decretare la fine della città.




Nel 1974 venne effettuato un colpo di stato militare greco ai danni del palazzo presidenziale, che cedette ai combattimenti. Il tentativo era annettere la totalità dell’isola di Cipro alla Grecia. Pochi giorni dopo la Turchia rispose militarmente, spingendo il proprio esercito alla conquista dell’isola. L’invasione portò all’occupazione di un terzo dell’isola, oltre che all’evacuazione di centinaia di migliaia di residenti. Nelle zone evacuate, c’era proprio Varosha, isolata dal mondo con una rete di filo spinato, preda delle barbarie dell’esercito turco, che la depredò in seguito all’invasione.




La città è rimasta da allora in stato di abbandono, i recinti delimitano ancora i confini della zona turco-cipriota. Tuttavia, nonostante le lesioni del tempo e degli agenti atmosferici, non muore la speranza di recuperare quell’angolo di Famagosta tanto amato dal turismo. Molti hanno lanciato un appello alla Turchia, con il desiderio comune di riportare Varosha allo splendore di un tempo. Per il momento, però, gli unici abitanti di questo paradiso spettrale sono le tartarughe marine, tornate a nidificare sulla spiagge dopo l’abbandono di quest’ultime.




Il giornalista americano Alan Weisman parla di Varosha nel suo libro “Il mondo senza di noi”, in cui analizza il futuro del pianeta dopo la scomparsa dell’uomo. Weisman ammette che basterebbero 25 anni di abbandono a rendere un edificio ormai inutilizzabile, sostenendo che la natura si riprende in maniera permanente ciò che l’uomo le ha tolto. Questa le parole di Weisman in seguito ad una visita di Varosha nel 1976, appena due anni dopo l’evacuazione:




“Il registro dell'albergo era ancora aperto all'agosto del 1974, le chiavi delle stanze posate sul bancone, la sabbia era entrata formando piccole dune nell'atrio, i fiori erano seccati nei vasi, veri e propri alberi stavano già invadendo la sede stradale. Piante grasse rampicanti serpeggiavano dai giardini degli alberghi, le vetrine dei negozi esponevano ancora creme solari e souvenir, un concessionario Toyota offriva ancora una vecchia Corolla, le facciate degli alberghi crivellate di proiettili, dieci piani di porte a vetro scorrevoli ormai distrutte...”




giovedì 17 gennaio 2013

Wall-e: quando l'uomo smette di crederci...


Molto spesso i film d’animazione vengono sottovalutati delle loro potenzialità, perché associati ad un pubblico infantile a cui basta un intrattenimento colorato e simpatico per passare la giornata. Questo è un errore comune, ma se si parla di Wall-e, il capolavoro della Pixar, il discorso è tutt’altro.
Non basta una recensione per spiegare quanto di meraviglioso c’è in questo film, non basta un resoconto dettagliato sul come abbiano curato le immagini e cercato ossessivamente i suoni per creare un mondo che ancora non c’è.
Bisogna fare attenzione innanzitutto a ciò che Wall-e vuole mostrarci, cioè una realistica e probabile visione del nostro futuro.
Il mondo è sommerso dai rifiuti, così tanto che la terra non è più vivibile.
Così l’uomo fugge su delle immense astronavi da crociera, mentre sulla terra dei piccoli e simpatici robot puliscono senza sosta.
Ovviamente, come ogni piano estremo, le cose possono andare storte. Così rimane il piccolo Wall-e, ormai unico nel suo genere, che continua imperterrito e testardo (ma quanta poesia) nel suo lavoro.
Le prime sequenze possono forse essere divertenti per i bimbi, in cui Wall-e esplora una pattumiera a grandezza mondiale e si stupisce degli oggetti che trova. Raccoglie una scatolina contenente un anello con tanto di brillante, butta quest’ultimo e tiene la scatolina. Quanta ilarità, ma quale messaggio arriva? Che cosa ritiene interessante il piccolo Wall-e?
Dovrebbe essere soltanto un robot che pulisce il mondo, invece è alla continua ricerca di poesia, di impreziosire quel mondo alla deriva in cui tutto sembra morto. Immaginate la sorpresa del piccolo robot quando si ritrova di fronte alla verde maestosità di una piccola piantina, di cui tuttavia non comprende l’importanza. Come lui, nemmeno l’uomo.


Questo, rappresentato nel modo più realistico concesso, sdraiato su una poltrona mobile con uno schermo davanti al viso. Come per celare agli occhi la vista della verità, alterando le proprie relazioni sociali, indottrinandolo alla moda del momento e al finto fabbisogno della propria esistenza. Una situazione, quella di questo film d’animazione per bambini, che può essere paragonata al 1984 di George Orwell, in cui questa volta il Grande Fratello è la cecità che viene elargita agli uomini.
Perché il piano di pulizia della terra è andato male, e i decenni sono passati veloci senza che nessuno se ne accorgesse.


Wall-e, per essere solo un film d’animazione per bambini, parla più chiaro della maggior parte dei film che escono nelle sale. E se credete che un bambino non possa recepire il messaggio, non possa apprezzare il comandante dell’astronave che vuole coltivare pizza o un robot che abbandona la sua direttiva prioritaria per darsi al romanticismo, vi sbagliate di grosso. Perché un bambino rimarrà affascinato come Wall-e dal verde che lo circonda, e forse nelle sue azioni future la sua mente farà un collegamento inconscio, perché ciò che mostra il capolavoro Pixar non è fantasia, non è illusione. Wall-e è quella parte ben celata dentro di noi, quella che sa riconoscere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Quella che, nonostante intorno a noi sia pieno di spazzatura (e non si parla solo di rifiuti), riesce ancora ad apprezzare le piccole scoperte. Come un bambino, con il suo zainetto, che raccoglie quanto di meraviglioso c’è in questo mondo.


mercoledì 16 gennaio 2013

Moon: dal lato oscuro della luna...


L’uomo ha sempre guardato ben oltre di quanto l’occhio potesse permettergli, fin dagli albori della fantascienza la meta più acclamata è sempre stata la luna.
Lo dimostra una delle pellicole più famose nella storia del cinema, se non la più.
Era il 1902 quando George Melies mostrò al mondo il suo Viaggio sulla Luna, dove quest’ultima viene rappresentata in modo visionario e quanto mai lontano dalla realtà effettiva.
Da allora il genere della fantascienza ci ha regalato visioni e immagini dal futuro, dando sfogo alla creatività di artisti concettuali che hanno aiutato sicuramente gli inventori di oggi.
Molto è stato detto sulla luna, così tanto che l’uomo è andato oltre, l’uomo ha scoperto altre galassie ed esplorato i buchi neri.
Per questo una recente pellicola ha catturato la mia attenzione, perché a distanza di quasi cento anni dal film di Melies si è tornato ancora a parlare della luna.
Il titolo del film in questione è Moon, diretto da Duncan Jones e presentato al Sundance Film Festival nel gennaio del 2009.


La visione di Moon non è molto lontana da una previsione del mondo futuro, alla costante ricerca di fonti di energia alternative.
La soluzione nell’universo di Moon proviene dall’estrazione dell’Elio-3 dal suolo lunare, in grado di soddisfare il fabbisogno energetico del 70% del pianeta.
A permettere ciò è un solo uomo, Sam Bell, interpretato magistralmente da Sam Rockwell. L’unico uomo sulla luna è in compagnia di un robot di nome GERTY, che ricorda un po’ l’odissea di Kubrick e a cui Kevin Spacey da la voce. Il compito di Sam Bell è quello di inviare l’Elio-3 alla terra dalla base situata nel lato oscuro della luna, il suo turno di tre anni è quasi terminato e non vede l’ora di tornare a casa per riabbracciare sua moglie. Un inizio classico per quei film che hanno voglia di stravolgere, di mettere in discussione ogni elemento, ed è esattamente ciò che fa Moon.
Sam Bell ha un incidente durante una normale procedura di routine e si risveglia in infermeria, non è più lo stesso Sam Bell di prima.
Così Moon si mette in discussione, e tutto ciò che sembrava certezza inizia a vacillare, come la fiducia verso la premurosa macchina di nome GERTY che riesce a comunicare solo attraverso simpatici (e ambigui) smiley.


Le comunicazioni in diretta con la terra sono impossibili a causa di un guasto ad un satellite, e Sam Bell smette di credere a quelle che inizialmente sembravano verità, il suo desiderio di risposte è così ossessivo che molto presto si ritrova a confrontarsi con se stesso, forse più materialmente di quanto le parole possano spiegare. I ritmi sono scanditi dalla musica di Clint Mansell, e nonostante il cast consista nel solo Sam Rockwell, Moon si dimostra essere un film dal basso budget che non cade nelle classiche pause da introspezione del personaggio, qualcosa che uno spettatore del sabato di pioggia assolutamente non apprezzerebbe. Nonostante si noti la differenza tra la pellicola di Duncan Jones e le grandi produzioni dei blockbuster della stagione, Moon è un film che fa ragionare. Non vuole solo giocare con le illusioni della mente umana, ma mostra una probabile proiezione di un futuro non troppo lontano, in cui l’uomo cerca la soluzione dei propri problemi guardando in cielo, senza in realtà cambiare il proprio approccio allo sfruttamento delle risorse.
La fotocopia fantascientifica di ciò che in realtà già succede in ogni angolo del mondo, dove ogni uomo sfruttato è solo, tagliato fuori dalla sua vita, con i propri diritti asportati a favore del guadagno di qualcuno. Moon è proprio nella nostra testa e Sam Bell, come chiunque, ha smesso di crederci.




giovedì 10 gennaio 2013

Città fantasma: Bodie




William Bodey cercava l’oro, e nella contea di Mono, in California, ce n’era abbastanza.
Non sapeva, però, di aver trovato uno dei giacimenti più importanti.
William Bodey non visse abbastanza per saperlo, fu sorpreso da una bufera di neve nel 1859, solo diciassette anni dopo fu scoperto il giacimento che trasformò il piccolo centro minerario fondato da Bodey in una vera e propria città da Far West.
La popolazione arrivò a sfiorare quasi i 10.000 abitanti, per un numero di circa 2.000 fabbricati.
Questi, costruiti interamente in legno, includevano banche, sindacati, giornali, una prigione, più di sessanta saloon, una chiesa e addirittura un tempio taoista.
A Bodie, infatti, figurava anche un quartiere cinese, con centinaia di residenti.




Non solo l’oro attirava nuovi abitanti, molto presto Bodie divenne famosa per la criminalità che veniva consumata tra le strade. Le fonti storiche riportano continui omicidi, sparatorie, bordelli e locali in cui i minatori spendevano tutto il loro guadagno, spesso con conclusioni fatali.
Era uso quotidiano chiedere al mattino se ci fosse un uomo per colazione, ovvero se qualcuno fosse stato ucciso quella notte.



Una storia, forse soltanto una leggenda, racconta di una bambina che si stava trasferendo con la propria famiglia da San Francisco a Bodie. A seconda di chi la racconta, questa bambina scrisse sul suo diario “Bene, per Dio, sto andando a Bodie”, oppure “Addio, Dio, sto andando a Bodie.”
Tra le leggende figura anche quella di Rosa May, una prostituta del distretto a luci rosse. Quest’ultima avrebbe aiutato la popolazione in un momento di epidemia nella città, salvando molte vite. Si dice, però, che fu sepolta fuori dal recinto del cimitero.




Il primo declino venne registrato dopo il 1980, quando altri importanti giacimenti furono rilevati in Arizona, Montana o Utah. La popolazione di Bodie si ridusse, ma non per questo la città fu abbandonata. Al contrario, furono costruite una chiesa metodista e una cattolica proprio ad indicare la trasformazione di un centro minerario in un vero e proprio centro abitato.




Le attività minerarie procedevano senza sosta, e Bodie vide innovazioni tecnologiche per l’estrazione dell’oro e anche una piccola ferrovia intitolata a suo nome.
Tuttavia, nel 1910 fu registrata la presenza di 698 persone, equivalenti alle famiglie che avevano deciso di restare a Bodie piuttosto che cercare giacimenti migliori altrove. Un numero troppo basso per rappresentare la città che era.



Furono tentate manovre di investimento, ma il censimento della popolazione mostrava cali bruschi che, nel 1940, toccarono appena un centinaio di persone.
L’ultima miniera venne chiusa nel 1942, quando fu ordinato di chiudere tutte le miniere d’oro non essenziali agli Stati Uniti.
L’etichetta di “Città Fantasma”, però, le fu consegnata molti anni prima. Un grande incendio devastò gran parte del distretto commerciale, e il numero di residenti era così scarso che un giornalista del San Francisco Chronicle decise di affibbiarle la nomina di “fantasma”.




Dopo che Bodie venne abbandonata, si presentarono gravi casi di vandalismo, che obbligarono l’assunzione di custodi per tutelarne le strutture. Questi custodi, furono gli ultimi abitanti di Bodie, e nel 1943 erano soltanto tre.
Nel 1962 Bodie divenne National Historic Landmark, ovvero un territorio non protetto come un monumento, ma che viene considerato di interesse storico nazionale.
Infatti Bodie conserva le architetture e l’arredamento dell’epoca, proprio come una città del Far West.




A causa della posizione dell’insediamento, sopra i 2.500 m di altitudine, e i pochi ostacoli naturali che la proteggono dagli agenti atmosferici, Bodie è afflitta da estati calde e inverni rigidi.
La mancanza di alberi nella zona, infatti, viene attribuita al fatto che anche le nottate estive fossero gelide, e molta legna fu utilizzata per scaldare i numerosi abitanti.




Questo clima rigido ed estremo, permette le visite alla città soltanto nei mesi festivi. Nonostante non sia difficile da raggiungere, a poche miglia da una strada statale, la neve e il ghiaccio ne rendono impossibile l’accesso.





Nonostante solo una piccola parte della Bodie fiorente di una volta sia sopravvissuta, quasi 200.000 persone ogni anno si avventurano per visitarla.




Bodie fece da sfondo per un servizio fotografico della band U2, che utilizzarono le foto per il loro album The Joshua Tree del 1987.




domenica 23 dicembre 2012

La fine del mondo

Anni di attesa, anni di ipotesi e di racconti. Leggende che tornano a galla, miti da sfatare, illusioni. Questo è stato il 21 dicembre dell'anno 2012, quasi un gioco per bambini.
Tra i sostenitori dell'apocalisse, gli scettici, i superiori della situazione, i saccenti e i creduloni, nessuno ha voluto interpretare in maniera diversa quello che può essere definito come "fine del mondo".
Il 2012 potrebbe segnare la fine del mondo che conosciamo, un mondo di ingiustizie e incorrettezze, un mondo segnato dalle guerre e dalla miseria. Un mondo illogico, se vogliamo ammetterlo.
Illogico pensare che il più grande rappresentante di una religione che sorride al prossimo e elogia la ricchezza interiore, sia in realtà coperto d'oro, e proibisca la fede agli omosessuali, alle persone divorziate, e come gesto di fratellanza compie solo l'iscrizione su Twitter.
Illogico inoltre vedere al governo personaggi che starebbero bene in uno spettacolino di cabaret, a giocare con la sorte di migliaia di giovani insoddisfatti che nel futuro vedono solo polvere. Come è possibile anche solo pensare che, una volta conquistata quella posizione, si pensi soltanto agli affari propri, privilegiando alcune categorie e abusando di altre.
Eppure, più mi sforzo nel pensarlo, più non ci credo.
Allo stesso modo guardo con disgusto quelle persone che nel traffico cercano di sorpassarti alla prima occasione, sia essa più o meno accettata dal codice della strada. A quelle persone io dico, avete tanta fretta di morire? Siete disposti a fare un torto a decine di persone ogni giorno, solo per accelerare i processi della giornata di circa mezzo minuto?
C'è inciviltà in questo mondo, e non sempre essa è riconosciuta nella figura di Berlusconi, o del papa, o di chiunque altro sia degno di lamentele.
Gli incivili siamo noi, che aggrediamo il prossimo solo perché siamo frustrati dalla vita.
Che gettiamo le cartacce in terra, sminuendo il gesto come se fosse una sciocchezza.
Noi che escogitiamo trucchetti per passare davanti alle persone lungo la fila, noi che rubiamo, noi se il cassiere si sbaglia con i conti ce ne andiamo a gambe levate.
Noi che ci lamentiamo a prescindere di ogni cosa, senza veramente tenere a un cambiamento.
La nostra illuminazione nella giornata è la vittoria della squadra del cuore o il nuovo tormentone pop, la farfallina di Belen e il gossip.
Le citazioni profonde dei grandi scrittori, le frasi fatte sulla crudeltà della vita, non c'è ispirazione e poesia in questo. Siamo tutti pronti a divinizzare i personaggi, ad elevarli a un livello di onnipotenza e di icona.
Non possiamo riempire la nostra testa di cose non nostre, non possiamo scannerizzare i pensieri altrui e fotocopiarli tali e quali.
E in tutto ciò, siamo così occupati nel farlo che dimentichiamo le cose essenziali, come la cortesia.
Dimentichiamo che un "grazie" può cambiare la giornata di una persona, che un sorriso può far venire il buonumore.
Eccola la vera fine del mondo, siamo noi, ed è per mano nostra che ci troviamo in questa situazione.
E i giovani, invece di abbandonarsi alla filosofia di qualcun altro, invece di lasciarsi andare alle sciocchezze perditempo, dovrebbero capire di avere il pieno controllo di un mondo che appartiene a noi.
Il cambiamento viene da noi, e non dai decrepiti seduti sulle poltrone del governo, che nemmeno con parrucchini, plastica e silicone riescono ad apparire giovani.
La fine del mondo che conosciamo, e da qui un cambiamento.
Come svegliarsi la mattina, rimboccarsi le maniche e dire "ok, da adesso mi do da fare".
Non parlo di una rivoluzione politica, ma di una vera e propria rivoluzione di se stessi.
Non si può avere la presunzione di poter cambiare il sistema se rimaniamo gli stessi egoisti, indifferenti, di sempre.
Questo è il mio punto di vista sul 21 dicembre, e sulla fine di un'era.
Ma so che tutti gli altri cercheranno piuttosto un'altra data in cui credere, un appuntamento per cui aspettare. Più un rinvio, che una vera presa di posizione.
Vedremo...

lunedì 3 dicembre 2012

Città fantasma: Pripyat





«All'attenzione degli abitanti di Pripyat! Il Comune informa che a causa dell'incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, nella città di Pripyat le condizioni radioattive nelle vicinanze si stanno deteriorando. Il Partito Comunista, i suoi funzionari e le forze armate stanno prendendo misure necessarie per combattere questo. Tuttavia, al fine di tenere le persone e soprattutto i loro figli più al sicuro e sani possibili, con la massima priorità, abbiamo bisogno di evacuare temporaneamente i cittadini nella vicina città di Kiev. Per queste ragioni, a partire dal 27 aprile, 1986 ogni condominio avrà un bus a sua disposizione, sotto la supervisione da parte della polizia e dei funzionari della città. È altamente consigliabile prendere i documenti, alcuni effetti personali e una certa quantità di cibo, per ogni evenienza. Gli alti dirigenti di strutture pubbliche e industriale della città hanno deciso l'elenco dei dipendenti necessari per rimanere in Pripyat per mantenere queste strutture in un buon ordine di lavoro. Tutte le case saranno sorvegliate dalla polizia durante il periodo di evacuazione. Lasciando la residenza temporaneamente, si prega di assicurarsi di avere spento le luci, le apparecchiature elettriche e chiuso l'acqua e le finestre. Si prega di restare calmi e ordinati nel processo di questo breve periodo di evacuazione.»



Queste le parole pronunciate il 26 aprile 1986, in seguito all’esplosione del reattore numero 4 della centrale nucleare V.I. Lenin di Chernobyl. Nell’aria furono emessi più di 100 materiali radioattivi, per un valore 400 volte superiore a quello delle bombe sganciate su Nagasaki e Hiroshima. Nonostante che, negli anni a venire, l’incidente venga ricordato con il nome della città di Chernobyl, il danno maggiore fu accusato dalla vicina città di Pripyat, quest’ultima distante solo 3 km dalla centrale, a differenza dei 18 di Chernobyl. Il motivo, oltre alla vicinanza della centrale, fu determinato dal vento. Quest’ultimo spinse il materiale radioattivo velocemente verso l’Europa dell’ovest e oltre, fino a toccare la costa orientale degli Stati Uniti.




La pericolosità del disastro fu comunque sottovalutata, e la città di Pripyat fu evacuata solo trentasei ore dopo l’incidente. Ai cittadini fu promesso di poter ritornare a casa in un tempo massimo di tre settimane, ma la promessa non fu mantenuta, da allora Prypiat è completamente disabitata. Le strade, pur essendo ancora praticabili, sono praticamente inutilizzate dal 1986.




Pripyat fu costruita per ospitare gli operai che lavoravano alla centrale, e guadagnò il soprannome di “città del cambiamento”. La sua costruzione di recente fattura, infatti, permise di utilizzarla come terreno di prova per nuovi metodi di costruzione e di sviluppo residenziale, da diffondere poi per tutta l’Unione Sovietica.
Sotto certi aspetti, Pripyat rende ancora onore al suo soprannome, perché tutto ciò che è negato all’uomo, viene restituito alla natura. Infatti, la città è diventata una specie di paradiso per gli animali che, non dovendo più interagire con gli uomini, possono circolare liberamente. Hanno occupato abitazioni e strutture abbandonate e non è raro incontrare un lupo, un orso o una volpe che attraversano la strada.
Fatta eccezione dei danni causati dal tempo, la città di Pripyat conserva ancora l’aspetto del giorno in cui fu evacuata, quando 1200 autobus formarono un convoglio lungo 25 chilometri.
Oltre alle strutture degli edifici, sono ancora presenti gli arredamenti, soprammobili ed elettrodomestici, abbigliamento dei cittadini e anche giocattoli dei bambini. Questo perché gli abitanti, durante l’evacuazione, portarono con loro soltanto documenti, libri o vestiti non ancora contaminati.
Quello che rimase a Pripyat fu depredato o lasciato nelle case, a causa delle radiazioni eccessive.
Oggi Pripyat può essere visitata, anche se non è saggio avvicinarsi senza dispositivi di sicurezza come un contatore Geiger. Specialmente nel parco giochi, che al momento dell'incidente era molto esposto alla centrale nucleare, è il punto più radioattivo della città.





Si ritiene che la zona di Pripyat possa essere tranquillamente accessibile in un periodo tra i trecento e i mille anni.
Nonostante tutto, gli abitanti di Pripyat tornano una volta l’anno, in occasione dell’anniversario della catastrofe, per rendere omaggio ai luoghi in cui hanno vissuto.




Pripyat, e la centrale nucleare di Chernobyl, hanno dato ispirazione ai videogiochi della saga S.T.A.L.K.E.R, Shadows of Chernobyl e Callo f Pripyat, oltre alcune missioni del famoso Call of Duty: Modern Warfare.
Per quanto riguarda il cinema, invece, sia Transformers 3 sia Chernobyl Diaries sono ambientati nella zona di reclusione, il primo per una sequenza, il secondo sfruttando l’aspetto abbandonato e misterioso per la produzione di un horror.
In realtà, ciò che ci si aspetta da un disastro nucleare è un paesaggio apocalittico e sterile, ma la flora e la fauna crescono tra i grigi palazzi di Pripyat, del tutto indifferenti a quello che successe nella data del 26 aprile.